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Quella nel foglio sono io

Si nascondeva dietro alle gambe del papà. Sette anni e tanta voglia di fare, di essere vivi, di essere attivi…e felici. Gli occhi che parlano, grandi, curiosi. E ovviamente le codine. Me la vedo questa splendida bambina che scorrazza per i prati. E’ quel genere di bimba che dovrebbe correre per i campi di grano e costruire case di legno, fare delle palafitte con pezzi di recupero, costruire capanne per avventure speciali tra indiani e cow boy, tra principesse e streghe, tra mostri maligni e fantastiche eroine.

 

Perché è questo che fanno i bambini.

Giocano, usano la fantasia, si muovono, e cercano la felicità in ogni gesto.

 

Si presenta con una verifica “non sufficiente”; mi monta la rabbia perché penso a chi ha avuto il coraggio di metterle quel voto. La bambina si sente in colpa, pensa di non essere in grado e si prende la responsabilità di aver sbagliato. Mi dice “a volte faccio degli errori e la maestra mi riscrive le parole sopra”.

Noto che le scritte sono in nero, cos’è avete avuto l’”attenzione” di non scrivere gli errori in rosso?

 

Allora penso che la scuola, quando fa così diventa come uno spettro. Glielo leggo negli occhi alla mia bambina. Si sente inadeguata, non capisce. Non sa darsi delle risposte, e allora pensa che sia lei ad essere sbagliata.

Ma con tutto quello che si dice sui bambini, perché ancora si ostina, la scuola?

 

Sai qual è la cosa più odiosa? Che ora che si parla molto di questi argomenti, ci sono alcune insegnanti che fanno le buone, fanno finta di aver capito, mentono ai bambini fingendo un’indulgenza pietosa…e alla fine quando vai ai colloqui e dai dei consigli su cosa fare ti rispondono che hanno 26 bambini, mica possono provvedere a tutti.

 

Quando dicono così mi verrebbe da rispondere: “come non potete provvedere a tutti, cosa state lì a fare?” invece la diplomazia mi impone di comprendere, di venire incontro, di passare per un secondo impercettibile dalla loro parte per tirarle dalla mia.

Non è plagio, il mio è un tentativo sincero di non ricorrere agli avvocati perché la trovo una cosa inutile, eccetto rari casi.

E poi continuo e penso: “ma come fate a non volervi occupare di tutti?” Certo, è un lavoro difficile, occuparsi dei bambini. E’ un lavoro difficile pensare alle difficoltà, gestire i genitori, cercare il sistema migliore per valutare, seguire i programmi, pensare alle INVALSI. Ma i bambini, i bambini sono il futuro. I bambini sono la nostra vita. I bambini sono bambini e in quanto tale vanno difesi. I bambini sono creature meravigliose, non hanno ancora avuto il tempo di farsi guastare. Sono creature che ti parlano con il cuore, con il gioco, con quello che conoscono. Come fai a non amarli tutti? Fare l’insegnante è un lavoro difficile, delicato, importante, ammirevole. Solo se è fatto bene. Conosco delle insegnanti speciali, brave, dedite e soprattutto amorevoli e umane. Delle altre, a cui consiglierei di cambiare mestiere…perché in questo caso ci rimettono i bambini, e i bambini vanno difesi.

 

Alla mia bambina dico che non si deve preoccupare, che la colpa non è sua, ma di quelle brutte parole antipatiche che ogni tanto le fanno i dispetti e che insieme risolviamo.

 

Finisce la lezione, è la prima volta che ci vediamo.

Fa un disegno, è una ragazza con un cane e un gatto. Mi chiede se può tornare; le dico di sì, tutte le volte che vuole.

Poi mi fa un sorriso e mi dice che quella nel disegno sono io, dipinge un cuore sulla maglietta , mi sorride e se ne va.

Sulla Qualità dell’Integrazione Scolastica e Sociale

Formarsi è importante, tiene alto il confronto e soprattutto consente una progressiva distinzione. Sono da poco tornata da un convegno, di cui questa dell’integrazione era la questione principale.
Mi sento quindi di poter fare alcune considerazioni.

Il problema principale è che garantire l’integrazione con la tipologia di didattica attualmente disponibile in Italia è sostanzialmente impossibile. Se si pensa che la modalità per lo più utilizzata è un insegnamento di tipo frontale e nozionistico, tutti quei bambini che hanno una qualche difficoltà in questo senso si troveranno spiazzati.
Facciamo un esempio. Per insegnare la grammatica, argomento sul quale in molti, con DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento) o meno, hanno sputato sangue, si utilizza principalmente un tipo di apprendimento sistematico e mnemonico molto incentrato sulla modalità verbale. Quindi si insegnano le varie voci del verbo, i tipi di aggettivi, gli articoli. Difficilmente però la proposta è di tipo iconico, cioè il fatto di poter insegnare attraverso le immagini l’uso delle parti del discorso e quali sono.
Questo per qualcuno può rappresentare un limite, in quanto, viene proposto solo un tipo di informazione.
C’è molta discussione relativa a questo argomento.
Una difficoltà di apprendimento, è conseguenza di una modalità di insegnamento sbagliata o è solo una modalità di apprendimento diversa che ognuno di noi ha a disposizione in quanto individui diversi? Lasciamo per un attimo da parte i disturbi. Parliamo solo di difficoltà.
Io credo che la risposta alla mia domanda sia: entrambe. Entrambe perché se un programma scolastico non prevede di rispettare i tempi di apprendimento della maggior parte dei bambini, allora non è un programma adeguato. Se le modalità che le insegnanti hanno a disposizione, per varie ragioni, sono limitate, allora bisognerebbe cambiare metodologia, insegnargliela, dare la possibilità di cambiare.
Per esempio per alcuni sarebbe molto utile poter fare esperienza di ciò che imparano. Studiamo le scienze? Andiamo in laboratorio. Studiamo la geografia? Organizziamo un viaggio.
L’altra questione è la differenza individuale. Mi verrebbe da chiedere quanti sono coloro che hanno avuto alle elementari difficoltà in matematica, nello scrivere, in italiano, a leggere. Sospetto una larga risposta affermativa. Forse perché le difficoltà, le abbiamo avute tutti. Forse perché le difficoltà, in alcuni casi, ci hanno consentito di apprendere, forse perché se fossimo stati tutti alunni perfetti, non avremmo avuto bisogno di un’insegnante. Ci sarebbe bastato Google.

La diatriba allora diventa: “una volta quando le difficoltà non si conoscevano, erano tutti somari e cattivi; oggi che le difficoltà si conoscono, i bambini si possono difendere con una diagnosi, se parliamo di disturbo specifico, o con un piano didattico personalizzato, se parliamo di bisogni educativi speciali”. Ma aspetta un attimo, siamo proprio sicuri che gli estremi siano questi? Non è che a qualcuno sia mai venuto in mente che potrebbe essere il sistema scolastico a non funzionare? Avrei piacere di chiedere alla Montessori, se e quanti bambini con difficoltà aveva nella sua classe.
Non è che magari abbiamo perso di vista chi è un bambino e pensiamo che possa essere standardizzata la sua prestazione con un TEST Invalsi?

Non vorrei che la conclusione del discorso fosse, non esistono le difficoltà e i disturbi. Vorrei però che si potesse operare una distinzione qualitativa di tali disturbi che preveda questa domanda: abbiamo fatto il possibile per insegnare in modo diverso, prima di diagnosticare o rilevare un disturbo o difficoltà? Abbiamo messo in atto tutti i sistemi riabilitativi possibili, prima di stabilire che un bambino dislessico ha una caratteristica che si porterà dietro per tutta la vita? Siamo proprio così sicuri che abbiamo creato, per tutti i bambini, le condizioni massime di apprendimento?
Siamo certi, del fatto che la scuola sia così inclusiva, se parte dal presupposto di distinguere chi ha il disturbo e chi no sulla base di una SUA caratteristica e non sulla base di ciò che la didattica può fare per lui?

Lascio la domanda aperta….

Facebook e l’identità cibernetica

A volte qualche genitore mi chiede consiglio su come regolamentare l’uso di Facebook. E la prima cosa che mi viene in mente è: bel problema! Se glielo vieti non va bene, se glielo lasci non va bene, se lo controlli c’è il problema della privacy, se non glielo controlli c’è il problema del pericolo imminente. Poi le categorie di genitori si dividono in permissivi: “cosa vuoi che succeda”, apprensivi “e se lo uccidono”, leggeri “anche se sta attaccato 3 ore è la sua vita”, amici “ci scambiamo i Poke!” e quelli del giusto equilibrio, i più rari.

Confesso di essere di parte, a me piacciono le vie di mezzo equilibrate e come sempre mi viene da porre l’accento non tanto su Facebook di per sé, ma sull’uso che se ne fa.

Allora, la generazione che più mi preoccupa è quella dei preadolescenti – adolescenti. Sarà che probabilmente i bambini (possono avere facebook?) non ne sono particolarmente attratti perché non sono ancora nella fase “social”. Magari lo prendono di più come un gioco, sebbene non neghi gli eventuali rischi anche di questo. Ma torniamo all’acne.

 

L’obiettivo di Facebook qual è? Comunicare? Condividere? Socializzare? Mettere al corrente? Mettersi in mostra? Farsi vedere? Da come io ho capito questa storia, si mette un “me stesso” dentro la rete. Tutti spaventosamente collegati. Poi hai una sorta di lista nera in cui inserisci tutti gli “amici” che puoi smistare secondo liste diversificate. Suddivisione in categoria, obiettivo della seconda elementare. Amici, amici stretti, migliori amici, familiari, persone con cui lavoro, persone con cui sono andato a scuola, persone che ho aggiunto ma che in realtà se non sento è pure meglio. Quindi, intanto suddivisione in gruppi. Insiemi.

Poi hai il problema delle “richieste di amicizia”. Ogni qual volta ne arriva una ho dei momenti di sudore, perché mi immagino sempre la scena in cui devo rifiutare. Ma vi immaginate che razza di confusione cosmica genera quel rifiuto? Un no secco. Fuori dalla mia vita. E poi se con una persona veramente non vuoi avere più a che fare la “cancelli” e poi la “blocchi”, allucinante.

Inoltre, hai tutta la sequela di informazioni inerenti la tutela della privacy, che generalmente la generazione acne non considera. Allora in un batter d’occhio te li trovi tutti magicamente collegati e con i profili aperti dove chiunque e dico chiunque può scoprire e visitare chi sei, cosa fai, chi conosci, dove vai a scuola, come si chiamano mamma e papà, come si chiama il tuo fidanzato, cosa ti piace mangiare, che film guardi, cosa ti fa schifo della vita, cosa invece adori. In un parola, sei manipolabile. Metti in mano a chiunque ciò che sei.

L’errore di fondo è pensare che siccome c’è uno schermo allora in qualche modo sei tutelato. Sbagliato. Perché in realtà il mondo è su internet da un pezzo e non c’è tutta questa distinzione tra reale e virtuale.

Che conseguenza ha questo rispetto alla costruzione dell’identità?

In teoria, questo momento di passaggio è vitale, duro, difficile, proprio perché formarsi è doloroso. Bisogna distinguere, scindere, differenziare, alienare, spostarsi, cambiare. E allora per ovattare questa sensazione di rabbia improvvisa si sta in compagnia. Se da un lato ci si forma dall’altro ci si eguaglia. D’un colpo, tuo figlio, si è trasformato nella copia esatta di quella intorpidita della figlia della vicina di casa. Copie.

Fin qui, mi pare tutto molto normale. La maggior parte di coloro che hanno superato i 18 queste cose le conoscono bene.

Ma la mia preoccupazione non è lì. Sta bensì nel fatto che Facebook rischia di essere un sostituto. Una sorta di baby sitter anti noia. Sei a casa a non far niente? Facebook! Cena in famiglia? Facebook! Al mare a prendere il sole? Facebook! Sei a scuola e la lezione non ti piace? Facebook! Sei in bagno a fare le tue cose?

Facebook! Facebook Facebook Facebook Facebook! Facebook! Facebook!

Una volta questo problema era con gli sms. Ora si chiama Facebook e SMS e What’s up e Twitter. Quando guardavo i film di fantascienza mi veniva da ridere all’idea che il robot vestito da colf impazzisse e iniziasse a tirare uova per la casa. Invece il panorama che non avevo previsto era la dipendenza.

Ci rendiamo conto che a Londra stanno nascendo i centri per la disintossicazione da Internet?

Ancora una volta mi chiedo perché lasciamo che Facebook diventi il baby sitter personale dei figli adolescenti. Dove sono finiti i patronati, le strade dove si giocava a pallone, le uscite tra amiche?

Il fatto è questo, c’è noia, i ragazzi sono annichiliti, non hanno ruolo e lo compensano con foto da super modelli. Ogni posa è una scusa per mettersi in mostra, per farsi apprezzare, per farsi condividere, per attirare l’attenzione con la mera illusione che così facendo si darà impressione di essere potenti, geniali, belli, sicuri e meritevoli.

Spero che il momento in cui narciso cadrà nell’acqua arrivi il più tardi possibile e che per allora avrete molti amici e familiari pronti a tirarvi fuori.

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