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Valutare il limite – parte terza

3. “valutare” un limite, vuol dire anche dare un limite?

In altro aspetto che mi interessa è il rapporto tra valutazione e limite. Dunque, riprendendo l’articolo ispiratore, si diceva che il voto serve per dare valore all’operato, dare dignità al sapere, corrispondere in maniera obiettiva la prestazione con un giudizio. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Diamo per assodato il fatto che ormai la scuola è strutturata in questo modo, che per un 4 non è mai morto nessuno, e lungi da me la possibilità di soverchiare il sistema. Ma almeno si dovrebbe mettere in dubbio quello che si sta facendo. Da anni.

Il ruolo del brutto voto sarebbe quindi quello di creare una corrispondenza netta tra valutazione e prestazione. Non hai studiato? quattro. Potresti studiare di più? quattro. Non sei preciso? quattro. Non hai un atteggiamento consono allo studio? quattro. Attenzione, perché ovviamente esiste anche la valutazione della condotta, con tutte le conseguenze del caso.  Ma allora il ruolo educativo quale sarebbe? Al momento ho in mente le valutazioni delle superiori, ma mi sento di includere in questo discorso anche le elementari visto che grazie ad un lungimirante ministro il voto numerico è stato reintrodotto anche lì.

Vedo allora di andare con ordine.

Qualcuno si è domandato se, alle elementari, il fatto di prendere 5 sia vissuto da parte di un bambino come una reale valutazione della prestazione e non della persona?

Qualcuno si è domandato se, alle medie, il fatto di prendere 4 sia vissuto da parte di un ragazzino come una reale valutazione della competenza scolatica e non della persona?

Qualcuno si è domandato se, alle superiori, il fatto di prendere 3 sia vissuto da parte di un ragazzo come una reale valutazione del metodo di studio, delle conoscenze apprese, della didattica e non della persona?

Voglio girare la domanda. Siamo davvero sicuri, che se un ragazzo non studia abbastanza la strategia del brutto voto serva effettivamente a mettere un limite? Si può, in altre parole, limitare con una valutazione?

O stiamo semplicemente valutando il limite senza effettivamente darlo?

Valutare il limite – parte seconda

images2. Il passaggio in società e le frustrazioni

L’altra questione che mi pongo è il fatto che nella nostra società non esista più un vero e proprio rito di passaggio in cui si definisce che il ragazzo è diventato adulto. Sarà per questo motivo che l’adolescenza si è prolungata; altro che bamboccioni, il punto è che, tanto per cambiare, nessuno mette limite. Quando si smette di essere bambini? Quando si smette di essere adolescenti? Quando si smette di essere giovani donne? Quando si diventa anziani? Esiste nella società moderna un tempo per ogni cosa? Esiste un tempo per ogni tempo? Dentro queste domande sta il punto del riscoprire l’infanzia. Quando qualcuno avrà capito dove sta l’argine di ogni età, di ogni tempo, allora si riuscirà anche a comprendere cosa è dei bambini e cosa è degli adulti. E cosa riguarda le frustrazioni che per età ognuno può e deve gestire. Che c’entrano le frustrazioni? Beh centrano perché allenano l’essere umano a sopportare determinate situazioni, a indirizzarlo in distinti binari affinché non si perda, servono perché se sono gestite a dovere un giorno ti aiuteranno ad avere speranza, nel futuro ma in buona sostanza anche in te stesso. Le frustrazioni danno valore al tuo operato perché di fondo dicono “ce la puoi fare”. Ovviamente tutto ciò è valido soprattutto in ambito educativo. Questo non significa chiaramente sottoporre quotidianamente un bambino a qualcosa che non sa fare, ma vuol dire plasmare possibilità cucite sulla sua identità e personalità. Cosa succede con l’esame di maturità? Beh, che ovviamente diventa un incubo. Si potrebbe dire lo stesso delle lauree; quanti ragazzi si perdono per strada? Puoi rimanere nel limbo anche tutta la vita, se non esiste qualcuno che mette un limite, allora lì sì che la frustrazione diventa schiacciante fino al limite, opposto, di portarti all’impotenza appresa. Quindi non stupiamoci se poi intervengono gli specialisti a risolvere il male sociale del passaggio all’età adulta perché il punto non è “consolare il poveretto perché deve fare quattro prove” ma accompagnarlo in un percorso di crescita che dovrebbe riguardare tutti.

Come vogliamo risolvere questa questione?

Valutare il limite – parte prima

Prendo ispirazione da un articolo che ho letto oggi in cui un professore esasperato denunciava a Galimberti il suo rammarico nel dover constatare che i genitori si intromettono spesso nella didattica dei figli. In sintesi, l’articolo diceva che ormai ciò che interessa la famiglia non è una reale formazione e cultura dei propri figli, ma la preoccupazione della competenza, dell’essere promosso o bocciato, quasi fosse più importante arrivare al pezzo di carta invece di conoscere il reale significato di ciò che si studia.

Un passaggio dell’articolo mi aveva incuriosito e riguardava la frustrazione da parte del professore nel non essere libero di mettere un brutto voto, per quanto alacremente documentato e giustificato, per paura di un ricorso al Tar o di qualche minaccia da parte di un genitore fermamente convinto di avere un genio in casa.

Inoltre veniva contestato il fatto che a causa delle varie riforme e cambi di governo, si sia giunti ad un unico esame, quello di maturità, che funge da vero e proprio sparti acque e che diventa la prima prova “seria”. Il risultato è una fobia generale da prova che coinvolge psicologi, genitori, e società intera nella commiserazione del poverino che deve subire quattro prove per avere accesso a qualche forma di libertà occupazionale o didattica.

A questo punto vengono a galla un sacco di problemi.

  1. Quale competenza?

Un paradosso contro il quale ci dobbiamo scontrare è proprio la mancanza di competenza. Non molto tempo fa un ministro sosteneva che i giovani dovessero essere “Choosy”. Forse intendeva dire che ci vuole un po’di sana versatilità, capacità di cambiamento, tendenza alla non fossilizzazione, intendeva forse affinità alla mobilità? sicuramente parola a doppio, forse anche triplo taglio. Ma non divaghiamo. Il messaggio che passa è che tutti possono fare tutto; come a dire, poco importa se nasci con una certa attitudine alle lingue, se fai il meccanico va bene uguale. Ecco quindi che si pone il problema del valorizzare i propri talenti, di avere lo spazio per poter realmente scegliere chi si vuole essere….MA, il risultato di un modo di pensare troppo elastico è che, in generale e con la generalizzazione si fa sempre un errore metodologico, sia sparita la competenza. Ora, la scuola dovrebbe avere il ruolo di fornire degli strumenti che ti consentano, sulla soglia dell’ingresso in società, e talvolta si spera anche prima, di essere una persona libera di scegliere.

Pura utopia naturalmente, e in questo senso non mi sento di incolpare la scuola per una responsabilità che ha solo in parte. Ma ho come la sensazione che, schiacciati dal peso del giudizio e della troppa rigidità, il risultato nel tempo sia stato un abbandono totale dei limiti indispensabili per costruire il sapere. In questo senso, mi pare di dover dare ragione al professore esasperato: vogliamo una didattica delle competenze o una didattica della conoscenza? ma non penso che la questione finisca qui.

Tanto per dirne una, qui la competenza viene usata con due accezioni. Da un lato si parla di competenza come il risultato di una serie di studi, raccolta di informazioni, esperienze che ti consentono di esprimere un giudizio di valore; dall’altro la competenza, quella a cui ci stiamo avvicinando, si può tradurre con “idoneità”.

Ma l’educazione e l’istruzione, verso quale competenza vogliono andare?

Segue passaggio 2.

Leggo Anch’Io…all’asilo

Diffondere un Metodo è difficile. Forse perché in fondo non si tratta solo di un Metodo, è un modo di vedere le cose. E’ un modo di vivere l’infanzia. Girare nelle scuole può darti occasioni; non arrivano subito, si fanno desiderare. E’ come se ti mettessero alla prova. Le occasioni prima ti tentano, vorresti mollare, non ce la fai più, perdi il senso di ciò che fai. Poi quando stai quasi per toccare terra, arrivano. All’improvviso ti colgono nella sorpresa di una richiesta. “Vieni a scuola e mostraci come si fa”.

Condividere un desiderio? forse è stato questo a creare una sinergia perfetta tra educazione e riabilitazione. Ma ora racconterò la storia di questa esperienza che mi ha toccato il cuore.

Sono entrata in aula un martedì mattina. All’inizio i bimbi mi hanno ignorato, mi guardavano di soppiatto chiedendosi se ero la sorella di qualcuno. A gruppetti, un po’alla volta sono arrivati e hanno iniziato le loro attività. Un bacio alla mamma, un papà con un peluche in mano,  “fai il bravo” dice la nonna, un altro non ne vuole sapere di staccarsi e tira la mamma fino in centro alla stanza.

E’ così che inizia la vita all’asilo, con la stanza che si riempie mano a mano di ventitré paia di occhi vispi. Qualcuno si stropiccia gli occhi, qualcun altro si avvicina a qualche gioco, si sono svegliati a casa ma hanno portato con loro un po’di sonno, un po’di rituali del mattino.

Li guardo tutta la mattina; vedo i dubbi, i capricci, i dispetti, ma vedo anche il loro essere bambini, il loro essere davvero bambini, ascolto le loro domande, i sorrisi, vedo il loro movimento e ciò che desiderano. Guardo con curiosità lo sconforto di alcuni che aspettano desiderosi l’arrivo della mamma, e vedo la tenerezza della maestra che li consola, che li capisce. Ogni tanto penso a me, a quando ero al posto loro e quasi mi emoziono al saperli così piccoli e così pieni di futuro.

La maestra mi chiede di iniziare un’attività con loro. Allora ritorno, un altro giorno.

E’ una bella mattina, sono emozionata. Chissà se i bambini saranno contenti di lavorare con me. Mi sono portata da casa gli attrezzi del mestiere e così la mia nuova giornata comincia.

Quando sono arrivata ho deciso di mettermi a fianco a loro. Succede così con i piccoli, che hai il piacere di condividere, ti assalgono di domande, sono curiosi di sapere cosa fai, chi sei, perché sei lì e ovviamente…se giochi con loro! Mi sono seduta in una piccola seggiolina e così, in mezzo ai Lego e alle letterine mobili ho iniziato a colorare e a disegnare lettere.

“Io non le so fare le lettere” è uno dei più grandi e guarda il foglio desideroso.

“Le vuoi imparare?” gli chiedo sorridendo. Fa di sì con la testa

“Vedi come fa questa?” lui annuisce e dice che la conosce. Un po’alla volta me ne scrive altre, mica lo sapeva di conoscerle!

“Hai visto che sai scrivere le letterine?” gli dico, lui è contento e mi guarda orgoglioso.

Si avvicina una più piccolina e mi dice “ma tu come hai fatto a impararle?” Allora le prendo la mano e le faccio scrivere una A “Così!” le dico. La piccola bambina se ne va in giro col suo foglio e scrive altre A, poi me le mostra e dico che ha capito “Allora ho imparato?” Le dico di si e trascina un’altra bambina a imparare.

In poco tempo sono accerchiata dai bambini, qualcuno colora, qualcun altro mi mostra lettere, un altro mi racconta come è fatto un aereo! E siamo tutti lì, insieme, nel piacere del sapere, nella curiosità della conoscenza.

Poi iniziamo l’attività. Da casa mi ero portata due pupazzi, un gufo che ho chiamato “il gufo vergognino perché se sente rumore si nasconde” e l’altro un drago “birbante che non vuole imparare”. E’ straordinario come i bambini ridono facilmente, a volte penso che diventare adulti ti insegni a ridere meno. Se vuoi ridere di più devi tirare fuori il sorriso del tuo bambino. E così il mio drago ha una specie di lingua che fa “BLEBLEBLEBLE”. I bimbi ridono, e iniziano a muovere la bocca, la lingua e le guance. Chiedo ai bambini se vogliono aiutare il mio drago a imparare le lettere con la bocca…e figurati se mi dicevano di no! Allora inizia un gioco di gonfiamento guance, di linguacce che sbucano e rientrano, che tentano di toccarsi il naso e che scappano. E’ importante mobilizzare la bocca! E i bimbi si divertono a fare boccacce! Alla fine attacco le bocche articolatorie della A della E della I della O e della U sulla lavagna magnetica e insegno ai bambini come si dicono; poi consegno ad ognuno una letterina che chiameranno per nome quando la devono attaccare. Ecco che hanno ripetuto tante volte la letterina ad alta voce e l’hanno fatto insieme! Alla fine il gufo domanda ai bambini le letterine, ogni tanto senti U al posto di O, ma è normale è la prima volta e stiamo imparando, in generale le sanno! Che bello, ha funzionato!!

Poi lavoriamo sul racconto delle storie. Una mia amica ha preparato alcuni pezzi “mobili” così posso mostrare ai bimbi cosa succede; è la storia di due lumache che si sono perse e allora mostro loro queste due lumache disegnate che si spostano nello spazio della campagna. Le ventitré paia di occhi mi guardano e cercano di indovinare cosa capita, sono rapiti dal racconto! Alla fine, tre bimbi vogliono raccontare la storia davanti a tutti, con le immagini ma soprattutto con le lumache! Qualcuno la storia non la ricorda allora dico a tutti gli altri che possiamo completare il racconto con i pezzi che mancano e così facciamo!

I bimbi hanno ripetuto la storia tre volte e nemmeno se ne sono accorti, poi a tutti consegno le immagini da mettere in ordine e leggo loro la storia “E’ questa la prima!” mi dice uno, sventolando trionfante una figura. “Sì anche io ce l’ho!” Mi dice un altro. E così in coro anche gli altri. A tutti dico sì, che sono bravi e che hanno trovato quella giusta! Lo facciamo per tutte e poi si mettono a colorare.

Uno di loro fa i dispetti, ruba i colori al vicino, allora mi accuccio a fianco a lui e gli chiedo di che colore sono per lui le lumache. “Viola e gialle” “Viola e gialle? Che bellissimo colore! Dai che poi mi fai vedere come hai fatto!” Il bambino non disturba più e mi fa vedere le sue bellissime lumache viola e gialle!

Devo andare via, starei con loro tutto il giorno; li lascio mentre colorano, qualcuno mi domanda se devo proprio andare…dico di sì ma che verrò a trovarli, per ora il mio compito è finito e di questa esperienza sarò grata per sempre alla loro maestra.

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