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Prenditi le tue responsabilità!

Credo di sentire questa frase almeno cinque volte al giorno. Più o meno, viene detta ai bambini con un livello d’età medio pari ai 7 anni. Cioè, dai 7 fino alla fine dei loro giorni.

Chissà perché alcuni genitori hanno deciso questo limite massimo per essere bambini. La cosa divertente è che quando faccio un colloquio genitori la frequenza d’uso è simile… Comincio ora a chiedermi perché. E’ sorprendente che questa frase venga usata con più probabilità dal gentil sesso. Che sia un caso? Ve la state immaginando la scena? Lei col viso paonazzo, giugulare gonfia, occhi in fuori, sopracciglia oblique, e grugno da orso inferocito. Ovviamente, dito puntato.

Lui, o il malcapitato, basito. “Prenditi le tue responsabilità!!!”

Analizziamo insieme questa frase. A scuola ci hanno insegnato che “prenditi” fa parte di uno di quei modi verbali che in molti prima o dopo bramiamo usare. L’imperativo. Sentite come suona bene? Impero, imperatore, potere, ricchezza, decisione, ordine. Io decido che tu devi. Fantastico. Quindi “prendi”. Attenzione però, perché non basta mica il comando fine a se stesso. No, no! Prendi – “ti”. Della serie, sto proprio, precisamente, ineluttabilmente, parlando con te! Sempre contando che dall’altra parte ci sia uno un po’duro di comprendonio, oltre al “ti” si fa presente che sono proprio le “tue”. Ho sempre la sensazione che al “tue” stia arrivando sostanzialmente il secondo schiaffone metaforico. Nel qual caso lo scarica barile non avesse funzionato a sufficienza, sarebbe utile far notare che in questo caso prendi è un’azione che devi fare solo tu. Non è “prendiamoCI – TI le tue responsabilità” è proprio “prenditi” da solo, tu e solo tu. Colpa tua, capito? Ci sarebbe ora la questione delle responsabilità.

Intanto, “le” indica effettivamente che sono più di una. Quindi, in pratica, dall’altra parte c’è qualcuno che ti sta, sempre metaforicamente, pestando. Veniamo alla questione responsabilità. Che cosa mi ricorda questo termine? Andando a curiosare qua e là trovo questo riferimento “responsabile: dal latino: [respondere] rispondere, composto di [re] indietro e [spondere] promettere, più il suffisso [-bile] che indica facoltà, possibilità.” Sostanzialmente dice: rispondi, prometti, rendi conto, abbi un ruolo.

Però, neanche male per essere una frase di quattro parole no? La riflessione finisce qui. Magari poi si potrebbe parlare di quanto sia utile una frase del genere con un bambino oppure discutere sul fatto che nel momento stesso in cui la si pronuncia si presume già che l’altro sia in grado di assumersi un ruolo…e se così non fosse?

P.S. Per i pignoli: di solito si dice assumiti, non prenditi…ma questo è un altro argomento!

La potenza di un’azione

Chi conosce la disprassia sa che quando ci si ha a che fare la scena che si palesa è più o meno questa: fate conto di avere un toro incavolato davanti e immaginate di prenderlo letteralmente per le corna mentre la bestia imbizzarrita divincola la testa per impedirvi di tenerla.

Contemporaneamente tira indietro, come un mulo. Un tomulo.
La disprassia è così. Si divincola come una bestia quando cerchi di domarla.
In particolare fa sì che la mano del bambino faccia una fatica impressionante a seguire un binario. La possiamo anche chiamare disgrafia se ci piace essere specifici. E’ un disturbo di cui pochi parlano. In un caso la disprassia è generica, coinvolge un po’ tutto il sistema motorio. Nel caso della disgrafia, parliamo di una sottocomponente che riguarda specificatamente il tratto grafico, cioè la scrittura e il disegno, per esempio.

Ora, io devo insegnare intanto al mio bambino a programmare una linea dritta. Facile vero? prendi un punto A, prendi in mano la penna, colleghi il punto A al punto B. Fatta la linea. Pensate, che per un bambino con questa faticabilità, un’azione così semplice può costare una frustrazione altissima. Se non altro perché mica la linea viene dritta subito. Allora, devi spezzare il compito, procedere per piccoli obiettivi, un pezzettino alla volta…e alla fine la linea viene fuori. Prima sarà simile ad un’onda, poi sarà obliqua, poi sarà un po’ più dritta; prima sarà lunga, poi sempre più corta. Giorno dopo giorno.

C’è chi pretende che i bambini con questo grado di fatica scrivano. Perché ormai hanno imparato come si fa, conoscono le lettere e quindi non si capisce perché non lo debbano fare. Se non scrivono è perché non hanno voglia, e quindi bisogna sgridarli, costringerli, spronarli. Perché sa, se io lo ricatto il bambino, vuole vedere come scrive bene?

Non mi metto a discutere su questo punto perché si commenta da sé. Ma voglio raccontare cosa mi è successo ieri durante una lezione.
Per alcuni di questi bambini, di quelli svegli, attivi, tutto ciò rappresenta un enorme scoglio perché sanno qual è il loro potenziale e, ahimè, non ci possono fare niente. Sono i bambini sensibili che soffrono di più.
Insomma, io devo portare questo bambino a scrivere meglio. Per fare questo, devo spezzare il compito come detto sopra.
Il bambino si innervosisce, scalpita. Eccola lì la bestia da domare, non il bambino sia chiaro, la disprassia. Così, gli prendo la mano delicatamente. Il bambino è nervoso. Gli dico di guardarmi. Sorrido. Lui mi studia. Non lo sa che voglio combinare con la sua mano. Gli dico di lasciarsi andare. Il bambino molla la presa sulla penna, allenta la tensione, e per un secondo impercettibile, si lascia guidare. Ecco, ha fatto una linea perfetta.

Poi lo lascio, fa da solo…e la linea perfetta l’ha fatta lui.

Agli adulti ci penserò dopo

C’era una volta un bambino che andava alla scuola elementare.

Le sue maestre non sapevano bene come insegnargli le cose nuove. Decisero un giorno che questo bambino aveva bisogno di una maestra che lo aiutasse. O meglio, come si dice ora, di una maestra che aiutasse la classe ad aiutare lui. La cosa è un po’complicata, ma la chiamano sostegno. Insomma queste maestre un giorno chiesero di parlare con i genitori del bambino perché secondo loro aveva un problema sul tempo. Era in ritardo.
Quello del tempo sembra un argomento che angoscia un sacco di persone. In ritardo sullo sviluppo normale, in ritardo rispetto agli altri, in ritardo sul programma. Insomma un problema sulla fretta. La mamma del bambino, già che è una che si preoccupa di suo, appare molto spaventata e decide di correre anche lei contro il tempo. Ora io mi immagino questo bambino tirato dal tempo in due direzioni diverse. Una che cerca di recuperare, l’altra che lo rallenta sempre di più.

In tutto questo ci siamo io e il mio bambino che ci guardiamo negli occhi. Io non dico niente, lo rassicuro. Gli dico solo che è potente, che lui può già solo perché è. E’ vivo il mio bambino. Lui corre, e sa essere felice. Lo rende infelice la protesa degli altri, il litigio degli adulti. Gli adulti a volte si dimenticano di essere felici. E allora rendono infelici anche gli altri…ma quando sono i bambini?
Io sono adulto, e vorrei arrabbiarmi con gli altri che gli rendono la vita difficile.
Comunque io e il mio bambino ci guardiamo, lui sorride, si fida e insieme facciamo la lezione.

“Deve essere bello lavorare con i bambini” –
“Sì, i bambini…sono la speranza, sono la vita, sono l’incontro più bello che mi potesse capitare”

Agli adulti ci penserò dopo.

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