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Le Tabelline Divertenti

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“Le Tabelline Divertenti” è un metodo facile da utilizzare sia da insegnanti che dai genitori per agevolare l’insegnamento delle tabelline.  Il volume è dotato di esercizi da svolgere sia in classe che a casa con l’aiuto di un genitore.

 

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Far sfogare la rabbia ai bambini!

13564451_bambino_arrabbiatoLa rabbia di per sé non è un sentimento negativo. Serve per difenderci. Anche gli animali si arrabbiano. Il punto è che la concentrazione di energia non può essere repressa, diversamente troverà un altro modo per liberarsi. Sicuramente lo sport, una corsa, giocare, sono ottimi rimedi per farla passare.

Ecco qualche rimedio casalingo:

  1. la carta: riciclare la carta può essere terribilmente divertente, soprattutto se la mamma ha accumulato cartoni da fare a pezzi saltandoci sopra, pacchi ingombranti da strappare e fogli da appallottolare. E’ liberatorio…possono provarlo anche gli adulti! Saltare sul cartone della pasta è assolutamente da fare!
  2. la plastica: ridurre ai minimi termini le bottiglie è ottimo per immaginarsi un super eroe “uccidi nemici”!
  3. il pungiball: in giro, nei negozi di sport, ne trovate anche di non eccessivamente costosi; dotate i vostri piccoli di guantoni, e via!
  4. la guerra di palline di gomma piuma: non rischiate danni perché le palline sono molto morbide…basta definire alcune regole prima di cominciare!

Fare i compiti con i figli: alcuni consigli!

Molti genitori devono affrontare il difficile ruolo del fare i compiti con i propri figli. Ecco alcuni consigli da seguire e cosa non fare.

1. la mamma non è la maestra: se avviene una costante intromissione tra il metodo scelto dalla maestra e ciò che il genitore propone il bambino può sentirsi confuso perché non sa più chi dovrebbe ascoltare. Se avete dei dubbi sul tipo di compito, sulla quantità, confrontatevi direttamente con l’insegnante, ricordandovi che a ognuno va il suo mestiere!

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2. non giudicare: spesso si assiste ad una vera e propria lotta tra genitore e figlio su come vengono svolti i compiti. Nascono pagine strappate, compiti da rifare. Qualche genitore fa addirittura rifare a casa quello che è stato fatto a scuola perché non era scritto bene. Questo è svilente per il bambino perché perde il senso di ciò che ha fatto durante il giorno e lo fa sentire in costante disagio perché non soddisfa le vostre aspettative.

i compiti sono un’occasione: sia per il bambino, perché gli consentono di ripetere ciò che ha imparato, e questo è alla base dell’apprendimento, sia per il genitore, perché può incuriosirsi su qualche tema che non ha approfondito da piccolo. La curiosità e il desiderio del genitore sono molto più stimolanti di un semplice “fai i compiti”

4 il senso del dovere: “i genitori vanno a lavorare, i figli vanno a scuola”; si può usare lo stesso metro di paragone per adulti e bambini? Certo, la scuola è importante, ma prima di tutto è un’occasione per alimentare la curiosità. Non uccidete questa naturale propensione dei bambini con rimproveri e sermoni sul senso di responsabilità…che noia!

5. ogni volta farlo studiare è un’impresa! per chi? i compiti possono diventare un gioco se il genitore sa mediare. La serietà dovrebbe stare nel rendere i bambini più felici possibile, se i bambini si rifiutano forse è perché fanno fatica e sanno già in partenza che quel compito comporterà sacrificio. Smontare la paura, può essere un buon inizio…quando i bambini si rendono conto che ce la possono fare già cambia tutto.

6. lo devo chiamare cento volte prima che si metta: è certo! Nel momento in cui si richiama i bambini si fa già una parte del lavoro; sarebbe più utile impostare un calendario settimanale, con un’orario da concordare con il proprio figlio destinato ai compiti. Può essere utile fare qualche pausa tra una materia e l’altra in modo che la fatica sia più accettabile e motivante. D’altra parte dopo tante ore di scuole, tornare a casa col pensiero dei compiti…..

7. gli ho detto che si assumeva la responsabilità di non fare i compiti…e li ha fatti. Alcuni bambini hanno bisogno proprio di questo, di cercare un limite da soli!

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Ci sono alcuni indici che nei bambini dell’ultimo anno dell’infanzia non andrebbero ignorati pensando che il tempo risolva e aggiusti; è possibile supportare le competenze del bambino in modo da affrontare l’ingresso alla scuola primaria con più serenità.Senza titolo

Linguaggio: il bambino non dice alcuni suoni, usa poche parole e il suo vocabolario non si arricchisce, produce frasi non complete, il racconto è confuso

Attenzione: fa fatica a concentrarsi, fatica a guardare negli occhi, non riesce a stare seduto per un tempo adeguato, non porta a termine un’attività strutturata

Comprensione: fatica a comprendere consegne della vita quotidiana, manca di risposte pertinenti

Memoria: fatica a memorizzare la conta numerica da 1 a 10, fatica a ricordare i giorni della settimana, fatica a imparare i nomi dei colori e delle cose

Autonomia: non riesce a fare da solo alcune cose (mangiare, vestirsi, mettere via), necessita che l’adulto si sostituisca in alcune attività

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Valutare il limite – parte terza

3. “valutare” un limite, vuol dire anche dare un limite?

In altro aspetto che mi interessa è il rapporto tra valutazione e limite. Dunque, riprendendo l’articolo ispiratore, si diceva che il voto serve per dare valore all’operato, dare dignità al sapere, corrispondere in maniera obiettiva la prestazione con un giudizio. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Diamo per assodato il fatto che ormai la scuola è strutturata in questo modo, che per un 4 non è mai morto nessuno, e lungi da me la possibilità di soverchiare il sistema. Ma almeno si dovrebbe mettere in dubbio quello che si sta facendo. Da anni.

Il ruolo del brutto voto sarebbe quindi quello di creare una corrispondenza netta tra valutazione e prestazione. Non hai studiato? quattro. Potresti studiare di più? quattro. Non sei preciso? quattro. Non hai un atteggiamento consono allo studio? quattro. Attenzione, perché ovviamente esiste anche la valutazione della condotta, con tutte le conseguenze del caso.  Ma allora il ruolo educativo quale sarebbe? Al momento ho in mente le valutazioni delle superiori, ma mi sento di includere in questo discorso anche le elementari visto che grazie ad un lungimirante ministro il voto numerico è stato reintrodotto anche lì.

Vedo allora di andare con ordine.

Qualcuno si è domandato se, alle elementari, il fatto di prendere 5 sia vissuto da parte di un bambino come una reale valutazione della prestazione e non della persona?

Qualcuno si è domandato se, alle medie, il fatto di prendere 4 sia vissuto da parte di un ragazzino come una reale valutazione della competenza scolatica e non della persona?

Qualcuno si è domandato se, alle superiori, il fatto di prendere 3 sia vissuto da parte di un ragazzo come una reale valutazione del metodo di studio, delle conoscenze apprese, della didattica e non della persona?

Voglio girare la domanda. Siamo davvero sicuri, che se un ragazzo non studia abbastanza la strategia del brutto voto serva effettivamente a mettere un limite? Si può, in altre parole, limitare con una valutazione?

O stiamo semplicemente valutando il limite senza effettivamente darlo?

Valutare il limite – parte seconda

images2. Il passaggio in società e le frustrazioni

L’altra questione che mi pongo è il fatto che nella nostra società non esista più un vero e proprio rito di passaggio in cui si definisce che il ragazzo è diventato adulto. Sarà per questo motivo che l’adolescenza si è prolungata; altro che bamboccioni, il punto è che, tanto per cambiare, nessuno mette limite. Quando si smette di essere bambini? Quando si smette di essere adolescenti? Quando si smette di essere giovani donne? Quando si diventa anziani? Esiste nella società moderna un tempo per ogni cosa? Esiste un tempo per ogni tempo? Dentro queste domande sta il punto del riscoprire l’infanzia. Quando qualcuno avrà capito dove sta l’argine di ogni età, di ogni tempo, allora si riuscirà anche a comprendere cosa è dei bambini e cosa è degli adulti. E cosa riguarda le frustrazioni che per età ognuno può e deve gestire. Che c’entrano le frustrazioni? Beh centrano perché allenano l’essere umano a sopportare determinate situazioni, a indirizzarlo in distinti binari affinché non si perda, servono perché se sono gestite a dovere un giorno ti aiuteranno ad avere speranza, nel futuro ma in buona sostanza anche in te stesso. Le frustrazioni danno valore al tuo operato perché di fondo dicono “ce la puoi fare”. Ovviamente tutto ciò è valido soprattutto in ambito educativo. Questo non significa chiaramente sottoporre quotidianamente un bambino a qualcosa che non sa fare, ma vuol dire plasmare possibilità cucite sulla sua identità e personalità. Cosa succede con l’esame di maturità? Beh, che ovviamente diventa un incubo. Si potrebbe dire lo stesso delle lauree; quanti ragazzi si perdono per strada? Puoi rimanere nel limbo anche tutta la vita, se non esiste qualcuno che mette un limite, allora lì sì che la frustrazione diventa schiacciante fino al limite, opposto, di portarti all’impotenza appresa. Quindi non stupiamoci se poi intervengono gli specialisti a risolvere il male sociale del passaggio all’età adulta perché il punto non è “consolare il poveretto perché deve fare quattro prove” ma accompagnarlo in un percorso di crescita che dovrebbe riguardare tutti.

Come vogliamo risolvere questa questione?

Valutare il limite – parte prima

Prendo ispirazione da un articolo che ho letto oggi in cui un professore esasperato denunciava a Galimberti il suo rammarico nel dover constatare che i genitori si intromettono spesso nella didattica dei figli. In sintesi, l’articolo diceva che ormai ciò che interessa la famiglia non è una reale formazione e cultura dei propri figli, ma la preoccupazione della competenza, dell’essere promosso o bocciato, quasi fosse più importante arrivare al pezzo di carta invece di conoscere il reale significato di ciò che si studia.

Un passaggio dell’articolo mi aveva incuriosito e riguardava la frustrazione da parte del professore nel non essere libero di mettere un brutto voto, per quanto alacremente documentato e giustificato, per paura di un ricorso al Tar o di qualche minaccia da parte di un genitore fermamente convinto di avere un genio in casa.

Inoltre veniva contestato il fatto che a causa delle varie riforme e cambi di governo, si sia giunti ad un unico esame, quello di maturità, che funge da vero e proprio sparti acque e che diventa la prima prova “seria”. Il risultato è una fobia generale da prova che coinvolge psicologi, genitori, e società intera nella commiserazione del poverino che deve subire quattro prove per avere accesso a qualche forma di libertà occupazionale o didattica.

A questo punto vengono a galla un sacco di problemi.

  1. Quale competenza?

Un paradosso contro il quale ci dobbiamo scontrare è proprio la mancanza di competenza. Non molto tempo fa un ministro sosteneva che i giovani dovessero essere “Choosy”. Forse intendeva dire che ci vuole un po’di sana versatilità, capacità di cambiamento, tendenza alla non fossilizzazione, intendeva forse affinità alla mobilità? sicuramente parola a doppio, forse anche triplo taglio. Ma non divaghiamo. Il messaggio che passa è che tutti possono fare tutto; come a dire, poco importa se nasci con una certa attitudine alle lingue, se fai il meccanico va bene uguale. Ecco quindi che si pone il problema del valorizzare i propri talenti, di avere lo spazio per poter realmente scegliere chi si vuole essere….MA, il risultato di un modo di pensare troppo elastico è che, in generale e con la generalizzazione si fa sempre un errore metodologico, sia sparita la competenza. Ora, la scuola dovrebbe avere il ruolo di fornire degli strumenti che ti consentano, sulla soglia dell’ingresso in società, e talvolta si spera anche prima, di essere una persona libera di scegliere.

Pura utopia naturalmente, e in questo senso non mi sento di incolpare la scuola per una responsabilità che ha solo in parte. Ma ho come la sensazione che, schiacciati dal peso del giudizio e della troppa rigidità, il risultato nel tempo sia stato un abbandono totale dei limiti indispensabili per costruire il sapere. In questo senso, mi pare di dover dare ragione al professore esasperato: vogliamo una didattica delle competenze o una didattica della conoscenza? ma non penso che la questione finisca qui.

Tanto per dirne una, qui la competenza viene usata con due accezioni. Da un lato si parla di competenza come il risultato di una serie di studi, raccolta di informazioni, esperienze che ti consentono di esprimere un giudizio di valore; dall’altro la competenza, quella a cui ci stiamo avvicinando, si può tradurre con “idoneità”.

Ma l’educazione e l’istruzione, verso quale competenza vogliono andare?

Segue passaggio 2.

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